Sul Corriere della Sera del 22 dicembre 2023 è apparso un articolo strano, nella rubrica “Analisi e commenti” di solito riservata a brevi ma incisivi interventi di importanti specialisti. Il pezzo si intitola Il Natale che non riesce a stupirci, a firma Carlo Baroni, e merita di essere letto e studiato perché è un ottimo esempio di come il Natale viene capito male dagli europei (o almeno dagli italiani) di oggi.
La tesi di fondo è che il Natale è cambiato e non riesce più a stupirci: “Con i fiocchi bianchi [ossia la neve scomparsa per via del cambiamento climatico] si sono dissolti anche stupore e meraviglia”. D’accordo: ma “stupore” e “meraviglia” per che cosa? L’autore cita “le luminarie”, le “vetrine scintillanti” e “i regali”. Cosa? Ma dài, bro, non farmi ridere! Uno dovrebbe davvero cambiare la propria vita, ossia “metanoein” come si dice in greco, per un po’ di luci e di finzioni ornamentali? Le cose non stanno così.
Il Natale è una festa religiosa. Se si perde il senso religioso della festa tutto il resto è solo finzione e apparenza, o meglio è solo relazione sociale e sentimento. Che è esattamente quello che è successo in questi decenni in Occidente (e forse in tutto il mondo) e [attenzione, spoiler!] è tutto quello che riesce a immaginare il nostro autore.
Perfino Baroni sembra intuirlo quando scrive: “La verità è che ci siamo dimenticati per che cose dobbiamo festeggiare?” Esatto, bro, è proprio questo il punto. Ci siamo dimenticati (o meglio: ti sei dimenticato) per che cosa vale la pena festeggiare. La risposta che ti dai è deprimente: “non è che recuperando passato e tradizioni si possa riaccendere per incanto la magia perduta”.
Eddài con questa storia della magia. “Magia” va a braccetto con lo “stupore” e la “meraviglia” di poche righe prima e dimostra quanto siamo fuori strada. Cosa diavolo c’entra la “magia” con il Natale? L’esperienza religiosa nasce dal bisogno di senso e significato nella nostra vita, bisogno che pare costantemente frustrato: nel mondo del capitalismo avanzato in cui viviamo tutto il residuo di significato che è possibile immaginare è l’appello alla crescita autoreferenziale dei consumi e dell’economia (che tali consumi dovrebbero sostenere). I bisogni radicali della coscienza (che nascono tutti dalla necessità di intuire un senso nell’esistenza, appunto) sono stati progressivamente marginalizzati per non dire espulsi, e nel momento in cui la domanda è stata anestetizzata anche la risposta (religiosa, si intende, e cattolica in particolare) è diventata inutile e superflua. Infatti non a caso nel flusso mediatico giganteggia l’icona di Babbo Natale, la metafora di cui la Coca Cola si impadronì nel 1931 per fare pubblicità ai suoi prodotti, non certo Gesù Bambino.
Forse, ma solo forse, agli inizi la parola “magia” alludeva a una situazione in cui le leggi della natura vengono sospese, come dichiara la teologia cattolica: la nascita di Gesù rende manifesto il mistero della Incarnazione, ossia dell’atto con cui l’infinito diventa finito, l’assoluto diventa relativo, Dio diventa Uomo. Questo è il punto, tutto religioso, per i cattolici. Il resto viene dopo, MOLTO dopo. Il resto è sociologia, relazioni parentali, indici di vendita: che c’entra tutto questo col mistero dell’Incarnazione manifestata? Un bel nulla. Per cui lasciate stare e non venite a seccarmi con “la magia del Natale” come la intendete voi: non mi interessa.
E’ buffo pensare che un contadino illetterato del passato, che però meditasse in cuor suo la “Biblia pauperum” affrescata sui muri interni delle chiese o incisa nei loro portali e nelle loro facciate, era molto più attrezzato ad affrontare la vita degli intellettuali di oggi che vaneggiano (nel senso etimologico: parlano del nulla) in televisione e sui social. Tutte le questioni veramente importanti dell’esistenza (vita, morte, amore, donazione di sé, chiusura egoistica, fedeltà, tradimento, cambiamento, conversione, verità, potere, sofferenza, felicità) erano costantemente sotto gli occhi di tutti e potevano rappresentare (a saperli decodificare e a volerli ricordare, è ovvio) un punto di riferimento, uno schema in cui inquadrare le vicende sempre diverse della vita.
Adesso, riassume con autocompiaciuto pessimismo il nostro autore, “il disincanto è la cifra della nostra epoca”. Eddài, bro, mica solo da oggi la gente è attraversata dai dubbi. E poi, la stessa parola “disincanto” è illuminante di un intero processo mentale: se la usi, vuol dire che ritieni che la gente fosse sotto un “incantesimo” (una magia, appunto) da cui ci si è risvegliati. “Disincanto” è una parola che sprigiona pessimismo e delusione, non per qualcosa che è stato imposto dal di fuori con la forza (non c’è violenza dall’esterno, in un disincanto) ma per un movimento interno della nostra coscienza che a un certo momento ha smesso di credere in qualcosa o in qualcuno perché ha visto o almeno intuito un livello diverso della realtà (per esempio, le dinamiche capitalistiche sotto la distribuzione dei regali, ridotti a merci come tutte le altre, che scalzano l’affetto dei genitori per i figli manifestato attraverso i doni natalizi, che a sua volta era già un “disincanto” rispetto all’immagine di Gesù Bambino che porta i doni ad altri bambini come lui). In questo movimento di disvelamento si va sempre verso il basso, mai verso l’alto: si procede cioè verso una visione del mondo semplice e più povera, mai verso una più articolata, ricca, complessa, dotata di senso. Il “disincanto” sembra essere una sorta di versione psicologica della Seconda legge della termodinamica, per la quale un sistema chiuso evolve verso il suo stato di organizzazione più semplice, e trae da questo suo allinearsi alle leggi fondamentali dell’universo la sua apparente giustificazione e fondazione: dimenticandosi, naturalmente, che la vita (anche quella biologica) va nel senso opposto, ossia quello della progressiva complicazione (muovendosi dagli organismi monocellulari all’uomo, in estrema sintesi) violando platealmente tale principio.
“Saperlo” dice il nostro autore, ossia accettare il disincanto “è un piccolo segnale di speranza”. Ma perché mai? Suvvia, questo è un forzare il discorso solo perché tu vuoi forzarlo a un happy end da piazzare a tutti i costi. In una addizione la somma non cambia se cambi l’ordine degli addendi. La speranza può esserci solo se interviene un elemento nuovo, ossia se nell’ordine del mondo irrompe qualcosa o qualcuno di totalmente altro. E di nuovo torniamo al senso religioso del Natale, che fa riscrivere l’ultima riga così: “nell’ordine del mondo irrompe Qualcosa o Qualcuno di totalmente Altro”.
E invece cosa propone il nostro? “Non aspettiamoci stelle comete abbaglianti, ci basterebbe la lucina dello smartphone da accendere quando fa buio”. A parte che le comete, essendo visibili solo per luce riflessa, non possono proprio essere “abbaglianti”, è evidente il gioco di metafore che spera di recuperare l’oggetto tecnologico universale (il telefonino) a una finalità diciamo così “spirituale” (in senso molto largo): ma è qui che assistiamo inorriditi al tracollo finale. Cosa infatti dovrebbe essere illuminato dalla tecnologia redenta? “Angoli della casa che trascuriamo, oggetti nascosti, foto dimenticate in una cornice fuori moda. Piccole gioie quotidiane che lasciamo in fondo alla coda infinita delle nostre incombenze quotidiane. Il Natale è questo”.
Il Natale è questo?!?!?!? E no, bro, non diciamo stupidaggini (stavo per scrivere un’altra parola), il Natale NON è questo, e nemmeno “togliere la polvere ai sentimenti veri, quelli che non hanno la lacrimuccia a renderli importanti”, come si legge nella riga successiva. La fede, qualunque cosa sia, NON è sentimento. Il sentimento è qualcosa che per definizione passa e va, si impone per un momento nell’orizzonte della coscienza e poi viene sostituito dal sentimento successivo. Se non viene stabilizzato del giudizio generato dal pensiero, il sentimento ti condanna a una altalena che ti muove su e giù senza spostarti di un millimetro.
Ma tolto di mezzo il senso religioso, in effetti, cosa altro rimane per giustificare il Natale? Forse forse hanno più ragione i neopagani che si rifanno al ciclo del sole e interpretano la festa come una lontanissima eco dei riti preistorici, quando davvero il ritorno della luce era essenziale per la vita umana. Ma il nostro non ha nemmeno a disposizione l’enciclopedia dei simboli naturali, che pure dovrebbe essere universale, ed è costretto a ripiegare sulla retorica più vacua: “Il Natale è una ripartenza. In fondo è solo la nostra vita. Quella vera.”